Caro amico poeta,
mi sono risolto a scriverti qualche parola dopo molto, moltissimo tempo... Le parole mentono sempre, come tu sai bene, dovremmo prestare più ascolto all’asfalto, al pugno chiuso, alle mutande sporche: alla vita, insomma. Tutto porta sempre allo stesso punto: solo la strada è diversa. È questo che conta, la strada. L’infinito e l’assoluto, che così tanto ci tormentano, dovrebbero nuovamente vestirsi del nostro pane quotidiano. (…) E allora tutto lo sfacelo e il male che noi siamo, e che non siamo, sarebbe infuriato come una superba bestia d’estasi in un cielo zeppo di dolore, colmo e traboccante d’agonie: un fragile muro che avrebbe arrestato, in un grande sisma di pietà, questo incessante nulla che viene e ci divora. Nient’altro che fame, siamo. Un’oscurante e distruttiva smania di splendore. Non un grido, ma un profondo mormorìo di silenzio, un nero e disperante scintillare nel nulla. Lontano guardavamo i tramonti e le stelle schiumanti, le azzurre maree disseccate all’orizzonte, ma era in giù, nel cannibale cemento della strada, che potevamo trovare qualcosa di vero, di necessario e di bello. In giù, verso le radici più sanguinanti e primitive e volanti di noi stessi, del nostro ferito cuore d’abbandoni, di quel poco d’immenso che resta del mondo. Eppure a volte, misteriosamente, un abbraccio vale più di tutto il male che morde e ci corrode infinitamente, come un folle e stupendo vulcano che incendia il freddo naufragante mare del nostro cuore. Tornare ad essere uomini, dopotutto, finalmente...
Gabriele Lastrucci,
da Lettera a me stesso. |